Siamo in grado di stare da soli?

Un gruppo di psicologi dell’Università della Virginia ha pubblicato su “Science” i risultati di un esperimento sulla capacità di restare soli con i propri pensieri. I partecipanti all’esperimento hanno trascorso brevi intervalli di tempo – dai 6 ai 15 minuti – chiusi da soli in una stanza spoglia. Non dovevano far altro che riflettere o sognare ad occhi aperti. Tutti i partecipanti hanno trovato l’esperienza  sgradevole e non hanno potuto eseguire il compito assegnato. Nelle varianti dell’esperimento in cui l’esercizio si era svolto in casa, un terzo di loro ha ascoltato musica o ha usato il cellulare.

Lo psicoanalista Masud Khan ha parlato della capacità di “stare a maggese”. Il termine è stato preso in prestito dall’agricoltura. Designa lo stato dei terreni che periodicamente sono messi a riposo per ritrovare una fertilità piena: vengono arati e concimati ma non seminati. La tecnica incrementa la loro permeabilità. Gli esseri umani, secondo l’intuizione di Khan, hanno un analogo bisogno di mettere periodicamente a riposo la finalizzazione della loro esperienza, per sostare in uno stato di attesa in cui la lavorazione delle proprie emozioni e pensieri va in profondità senza affrettarsi alla loro estrinsecazione, senza legarsi precocemente a un’attività.

L’esigenza non è tanto riflettere attorno a una questione concreta o sognare ad occhi aperti quanto permanere in stati mentali ed emotivi che non inseguono forme e contenuti precisi ma indugiano nella sedimentazione dei vissuti e nell’espansione graduale del desiderio. Questa è la condizione di maggiore permeabilità della vita interna alla vita esterna: la base del pensiero/gesto creativo, della intensità affettiva.

La ricerca degli studiosi americani formalizza un’esperienza comune: basterebbe guardarsi nelle sale d’attesa degli aeroporti o delle ferrovie, incapaci come si è di fermarsi un solo minuto tra giornali da leggere, telefonate da fare e caffè da consumare. L’agire coatto, che è diventato l’organizzatore sociale per eccellenza, sta risucchiando la nostra capacità di godere degli intervalli trasformandoli in “tempi morti”, nell’ambito della più grande mutazione antropologica della nostra epoca.