Dopo molto parlare, ci accingiamo, finalmente a scrivere questo contributo, di getto, forse sarebbe meglio dire con il cuore, di chi ha riletto, rivisitato e rivissuto le esperienze di questi due ultimi anni, in cui abbiamo condiviso un percorso gruppale.
Che cos’è un gruppo di tutoraggio? Ce lo siamo chiesto tutti quanti, non solo la prima volta che ci siamo incontrati con questo scopo, ma anche dopo che ci è stato esplicitato che si trattava di un gruppo di formazione in assetto dinamico. ”Una diffusa ed evoluta tecnica, per dirla citando Di Maria e Venza, finalizzata a favorire la crescita personale e collettiva. Il suo obiettivo è quello di intervenire sulla qualità, l’efficienza e la complessità del pensiero individuale e di gruppo, affinché i soggetti possano incrementare la loro capacità di cogliere e/o istituire connessioni fra i temi, le emozioni, gli affetti, le azioni e i fenomeni problematici presenti nella loro vita e in quella dei loro gruppi, sia rispetto alle dimensioni prevalentemente interne (per esempio identità personale, rapporto con il proprio lavoro e con il proprio gruppo), sia a quelle prevalentemente esterne (rapporti con l’utenza, con la cultura organizzativa, con gli altri gruppi)”. (Il gruppo di formazione – Di Maria, Venza in Gruppi). Alcuni di noi già si conoscevano perché dello stesso anno di corso, altri perché lavoravano insieme; altri non si conoscevano affatto. Così, dopo una breve presentazione e diversi scambi di opinione, su quella che per noi continuava ad essere una “strana forma” di gruppo, ci siamo inoltrati per la tortuosa strada che ha rappresentato in seguito, una singolare esperienza.
E pensare che quelli che oggi sono al quarto anno, avevano chiesto a gran voce uno spazio nel quale trovarsi, incontrasi ri-trovarsi! Ora ce lo avevamo, era nostro: era possibile portare ogni tipo di contributo da discutere insieme. Ma già il fatto di dover, a turno, stilare un report da commentare nell’incontro successivo non ci era piaciuto molto. Da lì in avanti, il silenzio, ma soprattutto la confusione, sebbene emotivamente e fortemente connotati, hanno caratterizzato la prima fase di questa nuova situazione esperienziale. Esplicitare e cercare di comprendere ciò che stava accadendo, inizialmente non è stato semplice! Abbiamo trovato allora un capro espiatorio su cui far convergere le nostre frustrazioni: la COIRAG. Docenti che tenevano le lezioni in modo, secondo noi, un po’ bizzarro, Confederate che, relazionandosi poco tra loro, programmavano seminari per le 30 ore o quant’ altro, senza tenere conto del calendario delle lezioni, sono divenuti il bersaglio di fanciullesche polemiche poste in essere per evitare il confronto. A questo punto però, il nostro “nocchiere”, ci ha fatto notare come questi atteggiamenti non solo fossero regressivi ma non permettessero né un incontro, né tantomeno un modo per cambiare una realtà spiacevole. Lentamente la rabbia, l’ostilità, l’aggressività, si sono incanalate lungo due direttrici che, solo verso la fine del primo anno di questa esperienza, ci hanno consentito di visualizzare un altro scenario: da un lato, troneggiava il tema dell’identità professionale, portatore di innumerevoli angosce, paure e fantasie di ogni genere; dall’altro quello dell’identità personale. E’ su questo versante che ci siamo spostati, investendo massicciamente le nostre energie sul problema, senz’altro presente ma non primario, della faticosità connessa al dovere convogliare tempi e modi dell’attività formativa con le esigenze degli allievi fuori sede. Probabilmente, il soffermarci su quest’ ultima tematica ci ha permesso di nascondere le nostre paure pensabili, ma ancora non dicibili, connesse al dover crescere, legittimarsi ad essere non più solo allievi, ma futuri psicoterapeuti. La graduale comprensione di questi aspetti, ha permesso alle tante voci presenti in quel gruppo, apparentemente così diverse e chiassose, di iniziare a parlare più sommessamente la stessa lingua, di riappropriarsi di quegli aspetti personali, di quelle parti di sé temute, negate ed allontanate che inevitabilmente il gruppo mobilitava; ci ha aiutato a riconoscere che il piano personale e quello professionale immancabilmente si intersecavano. Pensarli ed esprimerli nel gruppo, li avrebbe resi parlabili, sostanziando la crescita personale e professionale di ciascuno. Abbandonare il ruolo degli studenti lamentosi carichi di aspettative, il più delle volte scollate dal piano di realtà, e in attesa di essere nutriti dall’istituzione, per iniziare ad indossare i panni del professionista, assumendoci la responsabilità della propria formazione e del proprio essere persona, ha rappresentato un nodo importante del nostro percorso gruppale.
La pausa estiva ci ha consentito di riflettere su questi temi, tanto che la ripresa autunnale, ci ha visto, con nostra sorpresa, confrontare le nostre esperienze formative: osservazione silente/partecipante, specchio unidirezionale, contesto pubblico, contesto privato, come ognuno di noi si sentiva in quel contesto, che ruolo rivestiva al suo interno. Il tema della parlabilità o meno dell’essere uno psicoterapeuta in formazione, del poter o no esplicitare all’interno di un gruppo le proprie esperienze lavorative ha rappresentato per noi iniziare ad esporci all’interno della relazione gruppale. E’ emerso inoltre, come lo scrivere le relazioni potesse rappresentare uno spazio intermedio tra “lo stare dentro e fuori”. Su tutto ciò ora era possibile poter discutere, ma faticavamo ancora molto a “svelarci”. Ed ecco che silenzi rabbiosi, fraintendimenti, narcisismo e invidia sono riaffiorati. Un duro intervento della nostra conduttrice ci ha riportato all hic et nunc facendoci riflettere. E’ comparsa allora la metafora dello “stare a maggese” di Khan che si è collegata splendidamente con un sogno portato successivamente all’interno del gruppo: “Ci trovavamo nella stanza dove abitualmente ci vediamo, tutti presenti; tra le sedie però ce n’era una in più che rimaneva vuota”. Le associazioni che sono seguite si sono incentrate sull’ “aggiungere un posto”. La conduttrice ha rilevato similitudini tra il concetto dello stare a maggese di Khan e questo sogno, evidenziando “uno stato d’animo non conflittuale, una situazione transitoria dell’esperienza” indicando così che, dopo le tensioni e l’aggressività, stavamo attraversando un momento di trasformazione, utile per poter seminare, accogliere l’altro, predisporci al dialogo, alla relazione con una modalità differente rispetto a quella utilizzata fino ad allora. Su queste riflessioni è terminato il primo anno di questo cammino.
L’apertura del secondo ci ha riservato delle sorprese: per tre incontri i due sottogruppi si sarebbero riuniti in un unico gruppo. Qual era lo scopo? Non ci era molto chiaro e vecchi fantasmi riaffiorarono. La difficoltà del lavoro che ci aspettava, si anticipò con un fuori programma: l’ascensore, che portava all’appartamento messo a disposizione dalla responsabile del training per l’incontro allargato, si bloccò con quattro allievi al suo interno e grazie all’aiuto di un quinto furono liberati. Gli assenti a quell’ incontro erano numerosi, il silenzio, che fece da padrone per un po’ di tempo, denunciava la difficoltà per la nuova situazione: incontrarsi ed integrarsi. Il problema della fiducia è stato richiamato a gran voce da alcuni dei partecipanti che sentivano quel gruppo come “contenitore-colabrodo” (la trappola dell’ascensore, le voci che provenivano dal piano di sopra), incapace di trattenere e/o elaborare. Inoltre, quella situazione gruppale risvegliava vecchi nodi rimasti insoluti. La tematica della fiducia/sfiducia si ripercuoterà a cascata amplificandosi notevolmente per diversi incontri successivi a quello, soprattutto in riferimento alla possibilità che il percorso fatto all’interno del gruppo (piccolo e allargato) avrebbe potuto esitare in un piccolo contributo da portare al Convegno di ottobre del Laboratorio. Nuovamente la rabbia dilagava, facendo riemergere vecchi vissuti. E’ l’istituzione ancora una volta a farne le spese: da quest’anno ciascun partecipante avrebbe dovuto stilare un report sugli incontri. Sensazioni di appesantimento, di insoddisfazione, di tensione, di noia, di non apprendimento, sono calate di nuovo sulla paura legata all’essere adulti e alla difficoltà di relazionarsi con qualcosa di poco conosciuto o addirittura di sconosciuto: l’altro. Gradualmente la rabbia e la paura sono diventate però parlabili: senza l’utilizzazione di un capro espiatorio diventava possibile svelarsi, raccontarsi, progettare nell’immediato e per il futuro.
Il secondo incontro allargato ci ha visto regredire nuovamente verso la rabbia: un déjà vu. Attacchi gratuiti, frecciate ironiche, talvolta cattive e cosa peggiore giudizi. L’apertura e l’incontro con l’altro erano scomparsi di nuovo, lasciando posto, alla paura xenofoba secondo la quale il non conosciuto diveniva talvolta denigrato e si giocava a fare i piccoli psicoterapeuti.
Il ritorno al piccolo gruppo è sembrato calmare gli animi; riportare le esperienze fatte nei rispettivi workshop ha fatto emergere di nuovo il desiderio di “essere nutriti”, rappresentati e difesi. Forse una richiesta inconscia alla nostra conduttrice, che era assente in quel secondo gruppo allargato e al workshop.
Quell’ incontro ha stimolato molte riflessioni che riduttivamente sintetizziamo con un pensiero tratto da una relazione nella quale era forte il vissuto di alcuni di noi in tal senso: “Possediamo tante potenzialità di cui molto spesso non ci accorgiamo facendo richieste di nutrizione alla mamma chioccia, è necessario lavorare di più su noi stessi raggiungendo la consapevolezza di possederle, solo così forse questo corpo-gruppo non sarà più rabbioso o anestetizzato”.
Ora, se per gruppoanalisi intendiamo una nuova prospettiva epistemologica che studia la mente in una dimensione multipersonale, consentendoci così di osservarla come fatto mentale; se per set/setting intendiamo, non solo una diretta applicazione dei codici professionali dello psicologo, bensì il risultato del complesso dialogo necessariamente imbastito tra committente e operatore, così come teorizzato da Profita e Ruvolo nel 1997 in Variazioni sul Setting (pp18-19), allora si può ipotizzare che il nostro gruppo abbia strutturato un set/setting che abbia permesso di localizzare la matrice personale, dei processi di coesione gruppale, la messa in scena e la drammatizzazione della matrice medesima, attualizzando la narrazione della storia personale e professionale, rendendo possibile la rappresentazione di una scena gruppale carica di emozioni, che ha favorito la visione degli aspetti “disturbati” ed una successiva graduale modificazione del nostro modo di relazionarci .