Winnicott, sulla scorta della sua esperienza pediatrica, si dedica allo studio dei primi processi evolutivi, offrendo una lettura fresca e fiduciosa dei momenti salienti che caratterizzano lo sviluppo individuale.
Il percorso evolutivo viene indagato, dal momento della nascita fino alla relazione dell’adulto con se stesso e col mondo esterno. Tale percorso avviene senza che il bambino sia mai costretto a perdere niente da cui egli stesso, per effetto della sua innata tendenza allo sviluppo, non si voglia allontanare.
Lo sviluppo psicologico verso l’individuazione dalla madre e le relazioni sociali adulte, salvo incidenti di percorso, sono graduali e costanti tanto quanto lo sviluppo fisico e delle funzioni dell’io. All’ambiente esterno e alla madre in particolare spetta soltanto di fornire il sostegno e gli strumenti necessari al bambino per assecondare l’evoluzione cui egli è orientato dalle consegne del suo programma genetico.
Il tragitto evolutivo individuale si caratterizza come un cammino costante del soggetto verso l’obiettivo dell’indipendenza e della propria individuazione ma se ciò non costituisce nulla di originale, originali sono invece in Winnicott la tolleranza con la quale osserva, sulla via dello sviluppo, le deviazioni dal percorso più comune, le soste e perfino i momenti regressivi, confidando che ciascuna di tali deroghe dalla vita costituisca per il soggetto un mezzo per fronteggiare gli ostacoli che la realtà oppone alla naturale evoluzione.
Utile ai fini del nostro lavoro è osservare, brevemente, uno dei concetti fondamentali in Winnicott: il rapporto madre-bambino. Winnicott evidenzia come nelle prime settimane di vita la dualità tra madre e figlio, sebbene interrotta dalla nascita sul piano fisiologico, continui sul piano psicologico in maniera del tutto naturale. L’autore trova infatti che la cellula iniziale di cui indagare l’evoluzione non è il neonato, bensì il binomio madre-bambino. La diade viene così concepita come un organismo sovraindividuale che con una parte di sé provvede a se stesso, finché l’altra non raggiunga l’autonomia necessaria a staccarsi e procedere autonomamente.
Nella madre vengono rilevate istanze e propensioni verso il neonato che vanno al di là del semplice desiderio di accudimento e che si configurano piuttosto come una serie di comportamenti e atteggiamenti geneticamente preordinati del tutto armonici con le necessità fisiologiche ed evolutive non solo del bambino ma della diade in quanto tale. L’attenzione della madre verso il figlio si sviluppa come una tensione positiva che va oltre la scelta individuale e che invece si caratterizza come la continuazione naturale dell’alimentazione che il grembo materno ha offerto al feto durante la gestazione. Le cure prodigate dalla madre al figlio non sono considerate
come variabile esterna al bambino bensì come uno dei tratti essenziali del patrimonio che egli possiede per svilupparsi. Per Winnicott il bambino è una monade che non esiste. Dove c’è un bambino – egli dirà – vi sono anche delle cure materne che lo tengono in vita.
Questa breve disamina sul rapporto che secondo Winnicott intercorre tra madre e bambino era indispensabile per arrivare ad esaminare la “posizione depressiva” nello sviluppo emozionale normale. (Il termine “posizione depressiva” è inequivocabilmente mutuato dalla scuola di pensiero di Melanie Klein anche se Winnicott pur provenendo da una formazione kleiniana non si riconoscerà mai come tale).
Winnicott definisce quali sono le condizioni necessarie per la realizzazione della posizione depressiva o come egli preferirà chiamarla della “fase della capacità di preoccuparsi”. E’ necessario che gli stadi precedenti di sviluppo siano stati felicemente superati e per questo bisogna che il bambino si sia costituito come persona intera e, in quanto tale, abbia stabilito dei rapporti con delle persone intere. Winnicott considera il seno come una persona intera perché man mano che il bambino diventa una persona intera, il seno, il corpo della madre, qualsiasi parte del corpo materno, viene da lui percepita come una cosa intera.
Se non si può presupporre questa condizione di interezza, allora nulla è rilevante. Il bambino ne fa semplicemente a meno e vi sono molti casi di questo genere. Infatti, nelle persone di tipo schizoidi, può capitare che la posizione depressiva non si instauri in modo significativo.
In questo periodo il bambino vive l’esperienza per certi versi traumatica, dell’unità dell’oggetto materno il quale diventa espressione di due funzioni capitali che la madre deve poter riunire in sé e mantenere nel tempo in modo che il bambino possa avere la possibilità di utilizzare questa situazione. La madre si è generalmente adattata ai bisogni del bambino con la tecnica delle sue cure ed il bambino ha imparato a riconoscere questa tecnica come parte della madre esattamente come il suo viso, il suo orecchio ed i suoi atteggiamenti mutevoli. La madre è stata amata dal bambino come la persona che ha incarnato tutto questo (è qui che interviene il termine affezione e sono queste qualità della madre che si incarnano nell’oggetto che tanti bambini manipolano e stringono a sé) ma la madre è stata anche l’oggetto degli attacchi del bambino durante le fasi di tensione istintuale. La madre ha due funzioni che corrispondono ai due stati di quiete e di eccitamento.
E finalmente il bambino è pronto per associare nella sua mente queste due funzioni materne. E’ a questo punto che possono sorgere delle difficoltà. Il bambino non riesce ad accettare il fatto che questa madre così apprezzata nelle fasi di quiete sia la medesima persona che è stata e sarà spietatamente attaccata nelle fasi di eccitamento.
Il bambino, persona intera, è capace di identificarsi con la madre ma non sa ancora distinguere tra ciò che costituisce l’intenzione e ciò che avviene realmente. Le funzioni e le loro elaborazioni immaginative non sono ancora chiaramente separate e non vi è distinzione tra fatto e fantasia.
Viene il momento per il bambino di accorgersi che vi sono due usi completamente diversi della medesima madre. Sorge un nuovo genere di bisogno fondato sulla pulsione e sulla tensione istintuale alla ricerca di uno sfogo e ciò implica un punto culminante o orgasmo. Dove esiste un’esperienza di orgasmo esiste un aumento della pena di fronte alla frustrazione.
Si verificano, come già detto, due cose: da un lato la percezione dell’identità di due oggetti, la madre della fase quieta e la madre utilizzata e perfino attaccata e dall’altro l’iniziale riconoscimento dell’esistenza di idee, di fantasie, di elaborazioni immaginative della funzione, e l’accettazione di idee e fantasie collegate con il fatto ma da non confondersi con il fatto.
Questa progressione così complessa nello sviluppo emozionale non può avvenire senza il soccorso di un ambiente sufficientemente buono. Quest’ultimo è rappresentato dalla sopravvivenza della madre. Finché il bambino non avrà raccolto dei ricordi non vi sarà spazio per la scomparsa della madre.
L’essere umano non può accettare il fatto brutale di un rapporto eccitato od istintuale con la madre calma o di un attacco nei suoi confronti. Nella mente del bambino è impossibile che avvenga l’integrazione dei due aspetti materni senza cure materne sufficientemente buone e senza che la madre sopravviva per un certo periodo di tempo.
Consideriamo ora un giorno, in cui la madre regge la situazione e supponiamo che, ad un certo momento, all’inizio della giornata, il bambino abbia un’esperienza istintuale. Per semplicità, pensiamo ad un pasto. Compare un attacco cannibalesco spietato che in parte si manifesta nel comportamento fisico del bambino ed in parte è un elemento della fantasia che il bambino elabora riguardo alla funzione fisica. Il bambino fa l’addizione ed incomincia ad accorgersi che uno più uno fa uno e non due. La madre del rapporto di dipendenza (anaclitico) è contemporaneamente l’oggetto dell’amore istintuale (biologico).
Il bambino è beffato dal nutrimento stesso; la tensione scompare e il bambino si trova soddisfatto e allo stesso tempo truffato. Troppo facilmente si suppone che un pasto sia seguito dalla soddisfazione e dal sonno. Spesso è la pena il risultato di questa truffa, specialmente se la soddisfazione fisica priva troppo presto il bambino del suo godimento. Il bambino rimane allora con dell’aggressività non scaricata perché nel processo della poppata, non sono stati sufficientemente usati l’erotismo muscolare e la pulsione primitiva (di movimento); oppure con un senso di “fiasco” perché una fonte di godimento della vita è bruscamente scomparsa ed egli non sa che ritornerà.
Diamo per acquisito che il bambino abbia scaricato la sua tensione istintuale. La madre regge bene la situazione, la giornata procede ed il bambino si accorge che la madre “calma” coinvolta durante tutto il corso dell’esperienza istintuale è sopravvissuta. Ciò si ripete ogni giorno e finisce per il condurre il bambino a riconoscere la differenza esistente tra il fatto e la fantasia, tra la realtà esterna e quella interna.
L’esperienza istintuale induce nel bambino due tipi di angoscia. La prima è quella nei confronti dell’oggetto dell’amore istintuale. La madre non è la stessa prima e dopo: vi è un buco là dove prima vi era un corpo pieno di ricchezze.
L’altra angoscia riguarda l’interno stesso del bambino il quale ha avuto un’esperienza e non si sente lo stesso di prima. Continuiamo a considerare l’esperienza del pasto. Il bambino introduce qualcosa, questo qualcosa viene sentito buono o cattivo a seconda che venga introdotto nel corso di un’esperienza istintuale soddisfacente o nel corso di un’esperienza complicata da una collera eccessiva risvegliata dalla frustrazione.
Il bambino dopo il pasto non solo teme il buco immaginario nel corpo della madre ma è anche coinvolto molto intensamente nel conflitto all’interno del suo Sé, un conflitto tra ciò che è sentito come buono, che sostiene il suo Sé e ciò che è sentito come cattivo, persecutorio nei confronti del Sé.
Nel suo interno si è creato uno stato di cose complesso. Gli elementi di sostegno e di persecuzione stabiliscono un’interrelazione fino a quando non si costituirà qualche sorta di equilibrio, come risultato di ciò che il bambino trattiene od elimina in rapporto con il suo bisogno interno. Con l’eliminazione il bambino acquista ancora una volta un certo controllo poiché questa coinvolge ancora una volta le funzioni del corpo. Ma mentre nel processo fisico della digestione, vediamo eliminato solo ciò che è inutile, nel processo immaginativo l’eliminazione ha un potenziale sia buono sia cattivo.
In tutto questo frattempo la madre continua a reggere la situazione. Così, la giornata del bambino procede, la digestione fisica si effettua mentre un’elaborazione corrispondente avviene nella psiche. Questa elaborazione richiede del tempo ed il bambino può solo attenderne l’esito, abbandonato passivamente a ciò che avviene al suo interno. Nel bambino sano questo mondo interno personale diventa il nucleo infinitamente ricco del Sé.
Il bambino che ha la fortuna d’una madre che sopravvive, una madre che sa riconoscere un gesto d’offerta quando questo avviene, è ora in grado di fare qualcosa nei confronti di quel buco, il buco nel seno o nel corpo, scavato con l’immaginazione nel momento istintuale. E’ qui che intervengono la riparazione e la reintegrazione. Si è stabilito ora un circolo positivo.
Nel bambino che, giorno dopo giorno, diventa capace di tollerare il buco, ha origine il senso di colpa. Il sentimento inizia quando il bambino riesce ad unire le due madri, l’amore quieto e l’amore eccitato, l’amore e l’odio e cresce gradualmente per diventare una fonte sana e normale d’attività nelle relazioni. Quando il circolo positivo funziona, la preoccupazione diventa tollerabile per il bambino, il quale incomincia ad intravedere come, con il tempo, si possa fare qualcosa per il buco e per i diversi effetti delle pulsioni dell’Es sul corpo della madre. Si generano sentimenti di colpa più intensi ma si intensifica pure contemporaneamente l’esperienza istintuale con le sue elaborazioni immaginative. Come risultato il mondo interno si arricchisce e cresce a sua volta la capacità di donare. Il bambino acquisisce un ambiente interno. Diventa capace di trovare nuove esperienze a questo riguardo e di assumere, con il tempo, egli stesso la funzione della persona che regge la situazione per qualcun altro senza risentimento.
Quando l’individuo ha raggiunto la posizione depressiva e questa si è completamente stabilita, la reazione alla perdita è il dolore o la tristezza. Il lutto significa che l’oggetto perduto è stato magicamente introiettato e rimane esposto all’odio o contatto con gli oggetti persecutori interni. Viene turbato l’equilibrio delle forze del mondo interno: gli elementi persecutori sono rafforzati e le forze benigne o di sostegno sono indebolite. La situazione diventa pericolosa ed il meccanismo di difesa che tutto attutisce provoca uno stato depressivo. La depressione è un meccanismo di guarigione: ricopre il terreno di battaglia di una specie di nebbia, permettendo una cernita a ritmo ridotto e lasciando a tutte le possibili difese il tempo di entrare in gioco ed all’elaborazione il tempo di effettuarsi, in modo che possa eventualmente avvenire una guarigione spontanea.
Il soggetto, la cui posizione depressiva si è solidamente stabilita, immagazzina le relazioni intere o le situazioni magicamente introiettate o ricordi delle esperienze buone e degli oggetti amati, che permettono all’individuo di andare avanti anche senza il sostegno dell’ambiente. L’amore della rappresentazione interna di un oggetto esterno perduto può diminuire l’odio dell’oggetto amato introiettato suscitato dalla perdita.
Ricordi delle esperienze positive, in cui la madre ha retto la situazione, aiutano il bambino a superare i brevi periodi in cui manca la madre e costituiscono la base dell’oggetto transizionale, prima ; della successione familiare dei sostituti del seno e della madre poi.
Un mirabile esempio di posizione depressiva lo troviamo in “Piggle: una bambina”. Leggendo questo testo, trascrizione di un trattamento analitico di una bambina, si ha la rara occasione di essere ammessi nell’intimità della stanza di consultazione e di osservare Piggle e il dottor Winnicott al lavoro. E’ una vivace rappresentazione di due persone che lavorano e giocano insieme con intenso impegno e godimento. Secondo Winnicott, “non è possibile, per una bambina di quell’età, trarre significati da un gioco se, prima di tutto, il gioco non viene giocato e goduto”. E’ attraverso il godimento che l’angoscia viene dominata e contenuta nella globalità dell’esperienza.
Winnicott non solo avverte e accetta il transfert ma fa molto di più, lo porta a vivere, recitando le varie parti a lui attribuite. La drammatizzazione del mondo interno della bambina mette questa in grado di fare esperienza delle fantasie che tanto la disturbano e di viverle nel gioco. Ciò avviene a piccole dosi e in una situazione che è diventata sufficientemente sicura per lei, grazie alla capacità del terapeuta. La tensione creativa nel transfert viene sostenuta e il grado di angoscia è contenuto nei limiti delle possibilità della bambina, in modo che il gioco possa continuare.
Il trattamento si svolse “su richiesta” e Winnicott vide la bambina per quattordici volte cominciando da quando aveva due anni e cinque mesi. I genitori condussero Gabrielle in terapia poiché si accorsero che la bambina aveva delle paure che la tenevano sveglia di notte e che a volte sembravano influenzare la qualità generale della sua vita e del rapporto con loro. Fin dalla tenera età, la bambina dimostrava sentimenti molto appassionati verso il padre ed era in qualche modo in tensione con la madre. Dopo la nascita di una sorellina, avvenuta all’età di ventun mesi, la bambina era facilmente annoiata e depressa, cosa che non avveniva prima, improvvisamente era molto consapevole dei suoi rapporti e in particolare della sua identità. L’acuto dolore e la chiara gelosia verso la sorellina non durarono a lungo, sebbene il dolore fosse molto intenso. Le bambine, al momento dell’inizio della terapia, si trovavano reciprocamente molto divertenti. Verso la madre, la cui esistenza aveva quasi mostrato in precedenza di ignorare, Gabrielle manifestava molto più calore ma anche molto più risentimento. Verso il padre, era diventata sensibilmente più riservata.
Nelle sue fantasie, Gabrielle aveva una mamma e un papà di colore nero. La mamma nera entrava di notte, dopo di lei, e diceva: “Dove sono le mie tettine? Tirandole per farle diventare più grandi”. A volte veniva messa nel gabinetto dalla mamma nera. Questa mamma nera, che viveva nella pancia di Gabrielle, e con la quale si poteva parlare al telefono, era spesso ammalata ed era difficile farla stare meglio. La prima fantasia di Gabrielle riguardava il “bebecar”. Ogni notte ripetutamente chiedeva di dirle tutto del bebecar. La mamma e il papà nero erano spesso insieme nel bebecar Molto occasionalmente c’era bene in evidenza un porcellino nero (Gabrielle veniva chiamata Piggle cioè porcellino).
Winnicott intuì che la “paura” era la parola-chiave. La bambina si trovava ad elaborare un nuovo rapporto con la madre, che teneva conto dell’odio per la madre a causa dell’amore di lei verso il padre. Il cambiamento avvenuto in relazione alla nascita della nuova bambina aveva portato con sé angoscia, mancanza di libertà nel gioco e paure notturne. Ciononostante, insieme con questo, era intervenuta una accettazione della madre come persona distinta, da cui la costituzione di se stessa con una propria identità e con un forte legame con il padre. La madre nera era un residuato della sua nozione soggettiva preconcetta della madre.
Il bebecar rappresentava il “dentro nero della mamma da dove era nata la sorella” e il nero, l’odio. Oltre ad una mamma nera, la sorella diventerà nera e Piggle stessa, tanto che chiederà di portare dei vestiti neri perché si sentirà nera e cattiva. Nel corso della terapia, Gabrielle pagherà la mamma nera lasciando e accettando così, secondo Winnicott, la sporcizia, le feci, il disordine e sperimenterà la scissione tra la madre buona e la madre cattiva-nera. Una mamma nera che non capisce i bambini piccoli o che li capisce così bene che la sua assenza o perdita fa diventare ogni cosa nera. Con lo svolgersi della terapia, lo schema della malattia si andrà dissolvendo, dando luogo ad una serie di stadi di maturazione sui quali Winnicott lavorerà nuovamente sebbene essi fossero stati vissuti in modo soddisfacente nella primissima infanzia di Gabrielle. La bambina acquisterà una maturazione appropriata all’età e comprenderà che l’odio può essere provato ed esercitato con sicurezza perché non distrugge la buona esperienza.
Il concetto della tecnica della madre che permette all’amore e all’odio che coesistono nel bambino di evidenziarsi, d’intrecciarsi e di essere gradualmente controllati dall’interno in un modo non patologico; la dinamica che caratterizza il passaggio del bambino all’uso dell’oggetto che diventa stabile, reale e suscettibile di venire “usato” quando il bambino ne esperisce la presenza anche dopo gli attacchi depressivi che gli ha rivolto, vengono poi ripresi da Winnicott, a proposito dell’importanza che nel rapporto terapeutico ha la capacità dell’analista di tollerare e “sopravvivere” agli attacchi del paziente, restituendogli in tal modo la possibilità di convivere con le sue fantasie distruttive senza sentirsene egli stesso destabilizzato.
Winnicott dice che l’analista non può impedirsi di odiare e di temere i suoi pazienti e più si rende conto di ciò meno lascerà che l’odio e il timore determino ciò che fa ai suoi pazienti. L’analista deve essersi liberato, grazie alla sua analisi personale, delle vaste riserve d’odio inconscio appartenenti al suo passato e ai conflitti interni ed esterni, ed essere totalmente cosciente del controtransfert in modo da distinguere ed esaminare le sue reazioni oggettive nei confronti dei pazienti, tali reazioni comprenderanno anche l’odio e talvolta saranno gli elementi più importanti dell’analisi.
Dobbiamo ricordare però che in certe fasi dell’analisi l’odio dell’analista è effettivamente richiesto dal paziente e diventa allora necessario un odio che sia oggettivo. Se il paziente cerca un odio oggettivo o giustificato, bisogna che possa ottenerlo altrimenti non potrà sentire che può ricevere un amore oggettivo.
Winnicott ritiene che l’odio dell’analista nei confronti del paziente vada interpretato nel momento più opportuno anche se tale intervento è comunque sempre carico di pericoli. L’autore reputa che un’analisi sia incompleta se, nemmeno verso la fine, l’analista non sarà riuscito a dire al paziente ciò che egli, analista, ha fatto per lui a sua insaputa, quando stava male. Finché non verrà fatta questa interpretazione “il paziente sarà tenuto, in una certa misura, nella posizione del bambino piccolo che non può comprendere ciò che deve a sua madre”.
Winnicott paragona l’analista ad una madre che si dedica al suo piccolo quindi in grado di mostrare pazienza, tolleranza e dedizione. Secondo l’autore inoltre dovrebbe essere una persona puntuale, disponibile ed oggettiva in grado di riconoscere i desideri e i bisogni dei pazienti e di sembrare desiderosa di dare ciò che in realtà dà solo a causa dei bisogni del paziente, il quale può anche per lungo tempo non riuscire ad apprezzare (nemmeno inconsciamente) il punto di vista dell’analista perché non ha la capacità di identificarsi con lui. E certamente non è in grado di vedere che l’odio dell’analista è spesso generato proprio da quelle cose che egli, paziente, fa nel suo grezzo modo di amare.
BIBLIOGRAFIA
WINNICOTT,D. W. (1958). “Dalla pediatria alla psicoanalisi”.Martinelli, Firenze.
APARO, A., CASONATO, M., VIGORELLI, M. (1990). “Modelli genetico evolutivi in psicoanalisi. Il Mulino, Bologna.